Ci siamo dati appuntamento con Piero Lissoni ai Giardini Indro Montanelli, in una Milano che sembrava prendersi una pausa dal caos. Tra una chiacchiera e un caffè, ci ha raccontato la sua visione della città. Una città che non è mai stata perfetta, ma è proprio per questo che continua a far venir voglia di restarci. O di scappare. E poi tornare.

Lei è sempre di corsa?
Non sono mai di corsa, o meglio: corro, ma è una corsa mentale. La corsa c’è, ma è un mezzo, non un fine.
Per lei è più importante il traguardo o l’atto di raggiungerlo?
Il traguardo è il progetto, ma il tragitto è il processo. E a me interessa più il processo. Il progetto viene quasi da sé. Quando arrivi al traguardo, devi avere il coraggio di superarlo.

Il più grande pregio di Milano oggi?
Come si dice in dialetto: “Milan col coeur in man”. Milano è una città dura ma generosa. Ma se superi certi confini, ti dà tanto.
Una delle prime esperienze con la città?
Le portinaie che ci inseguivano con la scopa se giocavamo a pallone. I tram. E la nebbia. Milano è nebbia, per me. È quella sensazione da Ulisse con le sirene. La città intera diventa una sirena, e devi stare attento.

Milano l’ha mai delusa?
Sì, la prima volta nella linea rossa della metropolitana. Me l’aspettavo come la caverna dei sette nani, piena di cristalli. Invece era tutta bianca, illuminata, normale. E mi ha deluso, me la immaginavo come un cartone Disney.
Il suo edificio preferito a Milano?
Un edificio di Luigi Moretti in Corso Italia, modernista, anni ’50-’60, una specie di osso di seppia bianco appoggiato su un altro edificio.

Di cosa ha bisogno architettonicamente Milano?
Di andare in verticale, più grattacieli, più verde. Ne sono convinto: Milano sarebbe più bella se più alta.
Lei è un uomo di mondo, ma ha scelto di mettere radici a Milano. Perché?
Perché qui mi trovo bene. Milano è un trampolino. Ogni volta che ci sono, mi viene voglia di scappare. E ogni volta che sono via, mi viene voglia di tornare. Un modello schizofrenico raro, ma funziona.


